E dove andate di bello? Tra montanari che hanno il “vizio” è stata la domanda di rito che un amico ci ha fatto quando
ci parlavamo addosso a proposito del prossimo week end …. Sul Bellaveduta ... Non lo conosceva ma in maniera quasi scontata
ha osservato che i presupposti c’erano tutti e che di certo, avremmo goduto di un bel panorama. Dal momento che un po’ di
anni fa ci ero già salito sapevo che il toponomastico era assolutamente appropriato e per nulla casuale, Bellaveduta di nome
era una garanzia certa di bel panorama, ma non sapevo quello che ci avrebbe atteso, ed è stato molto, molto di più. Vado però con ordine.
Con Giorgio si stava organizzando una uscita domenicale, eravamo in cerca di progetti nuovi, diversi, sul tipo degli ultimi,
montagne poco frequentate, anelli da inventare, angoli di Appennino sconosciuti o quasi; è lui lo stratega delle programmazioni
ma ho voluto provare a dare il mio contributo buttando là, senza convinzione, la proposta di salire su Rocca Altiera ed il
Bellaveduta; un pò per cercare di partecipare alla fase preparatoria un po’ perché era tempo che ero lontano da quelle montagne e
anche perché Marina non le conosceva affatto e soprattutto perché se eravamo fortunati, con la lunga cresta dei monti della Meta
lì davanti, forse innevata come si deve, avremmo potuto avere in anticipo alcune belle sensazioni di inverno. Giorgio, sempre lui
e come suo solito, non solo non batte ciglio e aderisce subito e con entusiasmo alla proposta nonostante su queste montagne ci sia
salito solo l’anno scorso, ma si inventa, approfittando del fatto che abbiamo due auto, una sorta di quasi anello. Dal parcheggio a
quota 950 mt sulla strada che da Settefrati porta al santuario della Madonna di Val Canneto, slargo che si trova esattamente poco
prima che la strada prende scendere per il santuario, prenderemo a salire integralmente sulla dorsale che affaccia sulla Val Canneto
e poi per un’ampia carrareccia quasi fino in cresta, toccheremo le vette nell’ordine di Rocca Altiera e del Bellaveduta per buttarci
poi dentro la valle Canari che ci riporterà in basso poco sopra Settefrati dove prima di salire al parcheggio avevamo lasciato la
seconda auto. Non vedevo l’ora, mancava solo di “accostarsi al tavolo”.
La sveglia squilla a notte fonda, appuntamento al casello di Ferentino, sosta a Sora per l’indispensabile caffè e siamo sul posto,
al paese di Settefrati intorno alle 8 e 20, il tempo di parcheggiare un auto e di organizzarci, poco prima delle 9 siamo pronti con
lo zaino in spalla, il meteo prevedeva un inizio grigio e coperto, così abbiamo trovato, ed un miglioramento sul crescere del giorno,
non potevamo far altro che sperarlo, non era freddo ed era già una buona cosa.
Lasciamo la prima auto all’imbocco di una brecciata proprio al culmine di un tornante strettissimo un paio di chilometri forse tre,
oltre Settefrati, è l’imbocco di valle dei Canari; con la seconda auto continuiamo per altri cinque/sei chilometri fino all’evidente
unico ampio piazzale prima che la strada prenda la lunga discesa verso il santuario della Madonna di Val Canneto. Il sentiero si
inerpica direttamente dalla sede stradale una ventina di metri a sinistra del tornante, una traccia di calpestio lo rende molto
evidente anche se manca completamente ogni tipo di segnale. Per tracce di passaggi frequenti a terra si sale dentro un rado bosco
tenendo il centro della dorsale che si affaccia sulla Val Canneto, a terra il calpestio ogni tanto si perde, non ci sono le consuete
bandierine ad aiutarci, poi ritorna evidente e prende i connotati di un sentiero, sporadici minuscoli ometti qua e là ci vengono in
contro per toglierci i dubbi; quando ci affacciamo su una ampia valle interna spoglia scorgiamo una piccola carrareccia che sale e che
andiamo a prendere, la seguiremo fino alla fonte Palmelle. Insomma, il primo tratto è un po’ confuso ma semplice, con esperienza,
cavalcando la dorsale si sale su tracce di sentiero che ogni tanto spariscono e ritornano e poi si va ad intercettare la strada sul
centro di una valle a sinistra della dorsale.
La raggiungiamo con un breve traverso senza sentiero (un’ora dalla partenza) e la seguiamo per evitare pendenze dentro il bosco
altrimenti più faticose, pochi tornanti qualcuno dei quali cementati per evitare che le piogge li dilavino via e intorno a quota
1500 mt rientriamo nel bosco; un bellissimo bosco fitto, faggi molto alti e ormai spogli. La strada sale lenta e sfila accanto a
delle ampie doline erbose dove “ozia” un piccolo gruppo di cavalli che poco ci degnano e nemmeno si scansano al nostro passaggio,
sfioriamo una leggera sella senza nome sulle carte, un’ora e mezza circa dalla partenza, dall’altra parte si apre e sprofonda la Val
Canneto, laggiù in mezzo a quella selva fitta c’è la piccola radura col casone Bartolomucci, credo sarà una meta della prossima
primavera, da collegare con qualche bell’anello alle soglie delle montagne proibite, credo ne valga la pena davvero. Mentre superiamo
le ampie doline ed entriamo nelle piane erbose che preannunciano la fonte, quelli che lontano erano fragili sbuffi di nuvole diventano
compatte coperte di nebbia; nel giro di pochi minuti intorno non abbiamo più nulla. Ma col crescere del giorno non doveva spuntare il
sole secondo il meteo? Nessuno si perde di coraggio e continuiamo a bordo della strada mentre le prime chiazze di neve iniziano a
comparire, belle ghiacciate e dure. La strada continua in leggera salita, su alcuni cumuli di neve posti su ciglio scorgiamo delle
orme di orso, i segni delle unghie sono evidenti, profonda una decina di centimetri ma non è molto larga, una quindicina di centimetri,
senza esperienza e confrontandola con quella che ricordo di aver visto sotto il monte Iammiccio qualche anno fa, credo si tratti di un
orsacchiotto di stazza media; quest’ orma, ce lo confessiamo con Giorgio solo molto dopo, ci ha spinto ad una continua allerta, ad una
scannerizzazione continua dei boschi che scorgevamo dentro le profonde vallate nella speranza di scorgere qualche movimento dei grossi
pelosi; ce lo siamo confessato solo dopo forse perché entrambi sapevamo che era illusorio anche solo sperarlo. Dopo una curva secca
intorno a quota 1650 mt compare la diruta fonte Palmelle, dove di fatto termina la carrareccia, sono passate circa due ora dalla partenza;
un bel getto d’acqua gelida riempie la vasca che lentamente tracima e da vita ad un rigagnolo che prende velocità filtrando verso valle.
Vicino alla fonte sulla neve abbiamo scorto altre orme di orso, probabilmente la fonte rappresenta una tappa certa e fissa anche per la fauna selvatica.
Nella nebbia sempre più fitta e persistente continuiamo a salire, sta diventando anche quasi impossibile evitare la neve, dove manca i
prati sono zuppi, arriviamo sulla cresta erbosa senza grandi speranze di poter buttare una occhiata sul versante opposto. Con sorpresa
invece Val Canneto è quasi libera, alcune nuvole grigie lasciano delle strisciate molto pittoresche e tagliano in due la lunga dorsale
innevata dei monti della Meta. Il Meta, davvero un bella montagna ogni volta che la si rivede, il Tartaro e poi la sfilata dei Petroso
con tutte le loro desinenze comprese di anticima. Riprendiamo entusiasmo di fronte a così belle montagne, ancora più affascinante lo
spettacolo che ci viene offerto verso Sud dove sembrano galleggiare sopra una lucente coltre di nubi i profili delle Mainarde, spiccano
quello affilato del Cavallo e la lunga e massiccia cresta del Forcellone, isole sopra un mare sbuffante di nuvole bianche. Non solo ci
rinfranchiamo ma cominciamo a cullare la speranza che il paventato miglioramento a giornata inoltrata sia solo un pochino in ritardo e
che ciò cui stiamo andando incontro possa essere una esaltante esperienza; verso Nord, ancora lontano, alcune fasce di azzurro spiccavano
nel cielo, erano ancora troppo piccole e troppo lontane per decifrarle, per ora contava solo raggiungere Rocca Altiera seppur in mezzo a
nuvole sfilacciate. Ce lo diciamo a bassa voce, sperarlo costa poco, contarci non potevamo, sarebbe stato entusiasmante ritrovarsi tra il
cielo azzurro e un tappeto di nuvole bianche mentre ci saremmo trovati a camminare sulle cime e le creste che avevamo davanti. Percorriamo
la cresta a tratti erbosa e a tratti rocciosa verso Nord, la novità di avere per compagna di viaggio la lunga cresta dei monti della Meta
ci distrae un po’ ed ogni contrafforto oppure ogni sella servono per avere uno sfondo o una cornice diversa per provare a fare dei begli
scatti. Superiamo il paio di laghetti (ghiacciati) poco distanti dalla stazione meteo e alcune formazioni rocciose affioranti dalla distesa
di prateria che c’è tutto attorno, sorpassiamo una sella ampia che scende di pochi metri rispetto alla quota della stazione meteo, sulla
carta è riportata come “Il guado delle Capre” e riprendiamo a salire verso la cresta che abbiamo davanti una settantina di metri sopra la
sella. Un paio di cimette sporgono dalla quasi uniforme dorsale, a circa un chilometro verso Nord, una delle due sicuramente è Rocca Altiera,
difficile capire quale sia da qui. Il versante su cui saliamo è un labirinto di rocce affioranti, sulle quali, lontane una dall’altra sono
state stampate le bandierine segnavia del CAI; tra le rocce che affiorano come lame, la neve ristagna, non è riuscita a sciogliersi, è dura e
si cammina bene, conserva anche una miriade di tracce di animali, ancora l’orso insieme a quelle che sembrano essere orme di camosci, per
essere cervi sono troppo piccole. La cresta integrale devia un po’ sulla destra, il sentiero invece traversa leggermente verso Nord fino ad
intercettare di nuovo la dorsale introno a quota 1950 mt; un’ampia conca erbosa si apre oltre, ci entriamo dentro, sembra essere quasi una
dolina, ci separa da una punta molto bella su una dorsale prospicente, la mole è imponente e articolata, potrebbe far pensare a Rocca
Altiera ma è solo una cima senza nome a quota 1962 mt. Scivoliamo dentro la conca e la percorriamo per lunghezza e verso Nord, due piccole
dorsali ci scorrono a fianco, neve, roccia e prati si seguono senza ordine, gli orizzonti ci sono interdetti perché siamo scesi di una
quarantina di metri. All’interno del pianoro una traccia abbastanza evidente, dove non c’è neve, conduce chiaramente ad una risalita che
abbiamo davanti che si arrampica di nuovo sulla cresta principale pochi metri prima della prima delle due vette. Rocca Altiera è la prima
delle due, sono passate tre ore e mezza dalla partenza e l’arrivo in vetta coincide con un deciso e veloce miglioramento delle condizioni
meteo, le nuvole si compattano un centinaio di metri sotto le creste, gli orizzonti diventano puliti e si allargano fino a distanze
incredibili, il cielo assume i toni di un blu profondo ed il sole picchia; ci rendiamo conto che le nostre silenziose speranze hanno preso
forma. La dorsale dei monti della Meta è magnifica, pulita dalle nuvole e con una luce davvero meravigliosa che le scandisce in ogni
dettaglio, verso Sud e verso Ovest le nuvole si sono compattate intorno a quota 1800mt, insomma ci siamo sopra. Che bel regalo ci veniva
concesso, un ambiente già bello di suo diventava semplicemente onirico, le montagne lontane, le Mainarde fino al Miletto verso Sud anche
il monte Cairo ad Ovest, gli Ernici erano isole sospese sopra un vortice di flutti, a Nord invece si distinguevano bene le montagne del
Gran Sasso, della Laga fino ai Sibillini. Il meteo era cambiato improvvisamente ed era il meglio che potevano sperare.
La cresta continua verso Nord girando leggermente ad Ovest mantenendosi in quota, tratti in cresta e alcuni ad aggirare le piccole vettarelle
che spuntano ogni tanto, neve più compatta e a tratti anche troppo, senza ramponi in alcuni punti e nonostante i pendii poco accentuati
(ad Est perché verso Ovest precipitano) e quindi non pericolosi, richiedono molta attenzione, il rischi di una scivolata ci stavano tutti.
Poco meno di un chilometro dista la cima del Bellaveduta, la vetta è leggermente ad Ovest rispetto alla cresta che fila verso Nord, prima
una sella poco pronunciata e poi una risalita di una cinquantina di metri, le solite roccette sporgenti dove la neve ristagna coprendo
cuscini di Ginepro e poi il classico ometto; meno di un’ora da Rocca Altiera. Il panorama da qui è notevolmente più ampio e bello, tutto
quello che godevamo prima, la cresta che avevamo appena percorso si confonde con la dorsale dei monti della Meta che si alza dietro, verso
Nord invece si apriva tutto quel dedalo di vette minori, di creste, di valli scure che sinuose scivolano fino a Cima di Serra Materazzo,
fino al monte Irto, al monte San Nicola; da sfondo il Marsicano grossa tonda cupola col suo inconfondibile canalone che sale fino al monte
Forcone. Cuscini di nuvole ogni tanto, verso Ovest, si vanno compattando e sullo sfondo gli Ernici, il Viglio e la piramide del Deta sono
piccoli piccoli. Lontani verso Nord Gran Sasso, Laga, Sibillini e Velino si leggono precisi e nitidi a scapito della distanza. Mai nome più
esatto è stato assegnato ad una montagna, con queste condizioni di luce e visibilità un vero e proprio terrazzo sugli Appennini. A malincuore
riprendiamo a scendere dopo una breve sosta, ingordi ci siamo catturati ogni dettaglio di quel mondo così bello che c’era intorno, continuiamo
sulla cresta che scende verso Ovest e che vira lentamente verso Sud, si abbassa lenta e per alcuni tratti sembra perdersi nel vuoto delle
nuvole che si accavallano la sotto; Giorgio e Marina mi anticipano davanti ed è entusiasmante la prospettiva che me li riconsegna come se
stessero inoltrandosi su un tappeto in fermento, le loro sagome sono proiettate nel nulla, sulle nuvole, nessun orizzonte nessun riferimento,
nessun margine cui affidare il prossimo passo, lentamente si abbassano sulla linea di dorsale che scende ed è come se si inoltrassero a
camminare sulle nubi; quando raggiungo il culmine della cresta ovviamente le prospettive si riaggiustano e scorgo la dorsale che scende
verso la sella dove un grosso omino di pietre ci aspetta. Anticipa l’anfiteatro del Bellaveduta, sinuosa la dorsale rivira ancora verso Ovest
e degrada lentamente verso Nord formando un anfiteatro ghiaioso degno di nota e che parla, come tanti luoghi su queste montagne di epoche
glaciali antiche.
L’omino di pietre è il nostro confine, non andiamo oltre, prendiamo a scendere a sinistra dentro la valle che ci riporterà a casa, cercando,
per linee logiche ma senza traccia, di andare ad intercettare il sentiero che scende da Rocca Altiera già ben visibile e che scende dal
versante opposto; il pendio leggermente accentuato è sconnesso tra sfasciumi e piccoli faggi che non riescono ad everla vinta sui venti
evidentemente qui molto spesso forti, poca l’erba che a grossi ciuffi tutto cerca di contenere. Scendiamo veloci e quasi arriviamo addosso
ad un folto gregge di camosci che tranquilli bivaccano al sole e al riparo dai leggeri venti che soffiano in alto. Non ci sentono, forse
siamo contro vento, gli arriviamo ad una trentina di metri, quando si accorgono di noi siamo già fermi immobili e non si allarmano, ci danno
il tempo di acquattarci, di armarci di macchine fotografiche e di goderci le giocose scaramucce dei più piccoli e quelle più minacciose dei
maschi anziani. Scattiamo foto e ce li guardiamo, hanno già un bel manto invernale, lucido e compatto, ogni tanto un passo e lentamente mi
avvicino, mi osservano ma non si spaventano; quando siamo sazi di fotografie, chissà quante ne dovremo buttare in due, riprendo ad avvicinarmi,
per un po’ me lo concedono poi si allarmano ma senza prenderci davvero sul serio. Prima avanti e poi indietro continuano a correre forse
leggermente innervositi fin quando non decidono che mi sono avvicinato troppo, quella sorta di linea invisibile e conosciuta solo a loro è
stata superata, prendono a correre in salita, i maschi adulti davanti e gli altri dietro fin tanto che spariscono dietro la prima leggera
dorsale del terreno e inghiottiti dalla nebbia che ha ripreso a salire dalla valle. Fine dello spettacolo, riprendiamo a scendere soddisfatti
di questo ulteriore regalo. Più giù, li scorgiamo in alto, su una lingua di neve di un canale poco pronunciato, si inseguono più tranquilli che
mai, bello guardarli rincorrersi sembrano i nostri cuccioli umani quando si fanno i dispetti e si divertono ad inseguirsi, prima inseguo te poi
ad un comando sconosciuto si invertono i sensi, ora sei tu che insegui me. Fantastico.
I sentiero, nei pressi della fonte Bellaveduta, che non scorgiamo, aggira in piano l’imbuto della valle, lo prendiamo verso destra, pochi i
segnali ma è preciso, fin tanto che non entra in una piccolo pianoro virando verso il centro della valle e che anticipa un cambio di pendenza;
qui i segnali, presenti fino a pochi metri prima si perdono, qualche attimo per ritrovare la traccia giusta ed è Marina che la scorge più in basso,
il sentiero gira decisamente verso destra e riprende a costeggiare in leggera discesa il versante della valle; costruiamo un ometto di pietre per
aiutare chi ci precederà in questi luoghi.
Quando la traccia entra nel bosco, quelle sfilacciate avvisaglie nuvolose perdono tutte le remore avute fin lì, nel giro di pochi minuti si
compattano e inglobano tutto, l’universo fin li arioso e vasto si chiude a poche decine di metri da noi, per fortuna il sentiero a terra è
intuitivo, nel mare di foglie secche una fascia larga almeno un metro fila tra gli alberi e si fa leggere bene; sui tronchi invece sono davvero
poche le bandierine segnavia, l’atmosfera rarefatta e la sensazione di non essere in nessun luogo è affascinante, il silenzio è assoluto, solo
in nostro frusciare tra le foglie, non male anche questo momento.
Si scorre per una buona mezz’ora dentro il bosco, per tratti con un pendio che si fa leggermente ripido, poi spiana su una prateria ampia e
scoperta, disseminata di pietre sporgenti. Sull’erba la traccia si perde, occorre stare all’erta, per fortuna qualche bandierina in più è stata
stampata sulle rocce a terra; non sempre intuibili, anche per via della foschia, qualche volta le scorgiamo dopo averle superate, diventa quasi
un gioco il cercare l’uscita in questo pianoro labirinto senza pareti. Un’ultima bandierina e l’erba si scansa per riformare un vialetto che sa
di sentiero, si inoltra di nuovo nel bosco, supera un paio di fossi e a forza di scendere, anche se lentamente, lasciamo la nebbia sopra.
Usciamo dal bosco accanto ad uno stazzo, per un attimo ci coglie di sorpresa, non è riportato sulla carta, e dopo un dosso leggero si spalanca
l’ampia valle dove in fondo piccolo piccolo è riconoscibile il nastro di asfalto che dovremo raggiungere; quasi certi di essere sulla giusta
strada per arrivare al tornante dove abbiamo lasciato l’auto chiediamo conforto ad un signore barbuto che stazionava poco lontano dallo stazzo
e che si stava rimirando l’intera valle nella luce ormai quasi crepuscolare. Probabilmente il proprietario dello stazzo, non ha l’aria di essere
un pastore, mi fa venire in mente Bruno uno dei personaggi del romanzo delle Otto Montagne di Paolo Cognetti che ha vinto l’ultimo premio Strega:
montagne di altra latitudine, meno impervie e altro ambiente, forse stessa solo la voglia di isolamento. Ci ha rassicurato che eravamo nella
giusta direzione, pochi convenevoli, un saluto e riprendiamo a scendere, su un tappeto erboso morbidissimo, in leggera pendenza, se non fossimo
stanchi sarebbe una passeggiata piacevole.
La valle Canari è larga e purtroppo lunga, ne vedi la fine ma la fine non arriva mai, in fondo si scorgono delle canale brecciose dovute
forse allo scorrere dell’acqua, sembrano vicine ma è dovuto solamente al fatto che sono di dimensioni notevoli, diventano ben presto un
miraggio che non muta. Gli ultimi raggi di sole che filtrano sotto le nuvole infiammano il bosco mentre arriviamo sulla brecciata che anticipa
la strada asfaltata, quindici minuti di breccia scomposta sotto i piedi per raggiungere uno stazzo diruto e ancora cinque di comoda strada
battuta, sono le quattro del pomeriggio quando atterriamo nei pressi dell’auto di Giorgio. Chiudiamo il quasi anello ed una giornata stupenda
dopo 7 ore di cammino e circa tredici/quattordici chilometri percorsi, quasi milleduecento sono i metri di dislivello superati ma mai come
oggi questi sono solo numeri inerti e privi di senso; quello che conta di oggi è solamente quello che abbiamo potuto vedere, vivere e godere,
la solitudine degli ambienti ovattati e nebbiosi, montagne che bucano le nuvole e le nuvole che erano il nostro limite del mondo orizzontale,
i camosci che sono fatti guardare senza scappare. Se non ci arrivi lassù, se a forza di salire non ti imbatti in una giornata come questa non
potrai mai capire.